Il pick up tra paura e speranza
Il pick up ovocitario è uno di quei giorni che difficilmente si dimenticano. Non è solo un passaggio tecnico all’interno di un ciclo di FIVET o ICSI: è il momento in cui i giorni di punture, monitoraggi ed emozioni altalenanti si concentrano in poche ore decisive. Quel giorno, per me, è sempre stato un mix di paura e speranza, come se ogni battito del cuore scandisse l’importanza di ciò che stava per accadere.
Prima del pick up: il trigger e il progesterone
Quando i follicoli raggiungono la giusta maturazione, arriva la famosa iniezione di “trigger”, il farmaco che induce l’ovulazione e completa la maturazione degli ovociti. È un momento delicato: il centro indica con precisione l’ora esatta in cui fare l’iniezione, di solito 36 ore prima del prelievo. Ricordo ancora l’ansia di quella notte in cui la sveglia suonava alle 3, il cuore in gola e la sensazione di avere tra le mani un tassello fondamentale dell’intero ciclo.
Subito dopo, entra in scena il progesterone, l’ormone che prepara l’endometrio a ricevere gli embrioni. Anche se il transfer è ancora lontano, inizi a sentirti come se il corpo stesse preparando un terreno fertile, e questo, almeno per me, ha sempre acceso una scintilla di speranza.
L’arrivo in clinica: la preparazione
La mattina del pick up tutto sembra amplificato: il silenzio della sala d’attesa, i visi delle altre donne che ti guardano con lo stesso misto di timore e fiducia. Ti viene chiesto di essere a digiuno da almeno 6-8 ore, un piccolo sacrificio rispetto a quello che stai vivendo. Poi arrivano le infermiere: ti consegnano un camice, ti spiegano cosa accadrà e, nel giro di pochi minuti, ti ritrovi a percorrere quel corridoio che porta alla sala operatoria.
Per me, come scrivo nel mio libro, quello era il momento più intenso: pochi passi, ma sembravano chilometri. Cercavo di respirare profondamente, di ricordarmi che fino a lì avevo fatto tutto il possibile.
La sedazione: quel sonno sospeso
Il pick up ovacitario si svolge sotto sedazione cosciente o anestesia breve, una sorta di sonno leggero che ti protegge dal dolore e dall’ansia. Ricordo ancora la voce dell’anestesista, sempre gentile, che mi spiegava ogni passaggio, e quella sensazione improvvisa di rilassamento totale. In pochi secondi, il mondo si spegne e ti affidi alle mani del team medico.
È un sonno strano: non è profondo come un’anestesia totale, ma abbastanza da non percepire nulla. Poi, all’improvviso, arriva il risveglio: un po’ di confusione, la gola secca e la testa che sembra piena di sogni mai finiti.
Il risveglio e la prima attesa
Al risveglio, di solito ti offrono una tazza di tè o un biscotto. Ricordo di averli sempre accolti come fossero un premio, un segnale che la parte più difficile era passata. Lì, sdraiata sul lettino, arriva il primo verdetto: il numero degli ovociti prelevati. Quante volte ho guardato la dottoressa con occhi tremanti, aspettando di sentire se i giorni di punture erano valsi la pena. E ogni numero, grande o piccolo che fosse, mi sembrava sempre carico di speranze.