Quando il supporto medico si ferma alla frontiera della legge
C’è qualcosa di profondamente frustrante nell’essere legalmente compresa e, allo stesso tempo, umanamente respinta. Oggi mi è stato detto, con gentilezza ma fermezza, che la mia dottoressa in Germania non potrà più prescrivermi i farmaci per questo ciclo. Non può farlo perché, in quanto medico tedesco, non può in alcun modo supportare una procedura legata all’ovodonazione. Anche solo prescrivere una terapia ormonale — quella stessa terapia che assumono ogni giorno migliaia di donne — diventa un problema, se ha come finalità l’impianto di un embrione da donazione.
Lo capisco. Legalmente. Ma sentirsi “capite” sul piano legislativo non allevia quella fitta profonda che arriva quando una persona in camice bianco ti guarda negli occhi e ti dice: “Mi dispiace, non posso aiutarti.”
Il peso del non detto
In Germania, l’ovodonazione è vietata dalla legge sulla protezione dell’embrione (Embryonenschutzgesetz). Una legge nata con l’intento di tutelare la vita, ma che finisce, nei fatti, per negare diritti e opzioni terapeutiche a chi, come me, ha già pagato caro il prezzo dell’infertilità.
Questa posizione rigida pone i medici di fronte a un muro: anche quelli che, umanamente, vorrebbero supportarti devono tirarsi indietro. Nessuna prescrizione, nessuna collaborazione. Tutto si ferma. Il protocollo medico diventa una linea invisibile che separa il tuo corpo dalla possibilità di essere curato.
E così, ti ritrovi a vivere in due Paesi contemporaneamente: la Spagna, dove tutto procede secondo le linee guida, e la Germania, dove ogni visita diventa una richiesta non detta, ogni ricetta un favore impossibile.
Praticità o clandestinità?
Come molte altre donne, continuo a fare gli esami del sangue e i monitoraggi endometriali in Germania. Non per sfida, ma per necessità. Perché è qui che vivo, è qui che lavoro. Sarebbe impensabile volare in Spagna per ogni ecografia. Ma questa divisione geografica si trasforma in una dicotomia emotiva.
In un Paese vengo accolta, sostenuta, accompagnata in ogni passaggio. Nell’altro, sono invisibile. O peggio ancora: una che sta facendo qualcosa di sbagliato.
Eppure, non sto cercando di eludere la legge. Sto solo cercando un modo per diventare madre.
Il giudizio implicito
La sensazione più lacerante non è la difficoltà logistica, ma il peso del giudizio. Anche se non viene mai espresso apertamente, c’è. Si legge negli sguardi, nelle esitazioni, in quelle pause troppo lunghe prima di rispondere a una domanda. Come se la tua scelta mettesse in discussione qualcosa di più profondo: il concetto stesso di genitorialità.
E allora ti chiedi: “Ma sono davvero colpevole di voler diventare madre? Di voler far nascere un figlio attraverso un dono?” Perché di questo si tratta. Di un dono.
Un cambiamento necessario
La Germania è un Paese avanzato, moderno, attento ai diritti. Ma su questo tema è rimasta indietro. E questa arretratezza non è neutrale: incide sulla vita di molte donne. Crea percorsi a ostacoli, obbliga a silenzi, costringe a doppi binari.
Credo che ci sia bisogno di un cambiamento. Non solo a livello legislativo, ma anche culturale. C’è bisogno di riconoscere che la genitorialità non si definisce solo dal DNA, ma anche dalla volontà, dall’amore, dalla cura. E che ogni donna ha il diritto di essere accompagnata, non ostacolata, in questo cammino.